Fred Buscaglione

 Compositore di opere tatrali e musiche sacre

Noto come PIETRO GENERALI. Nato nel 1783, visse lungo tempo a Roma al tempo dei grandi: Paisiello, Rossini, Bellini, Donizetti, rivelando, con la copiosa produzione di opere teatrali e musiche sacre, fecondissima vena e consumata perizia. Esordì a 17 anni con gli AMANTI RIDICOLI; raccolse nei teatri di Roma i migliori applausi; andò a dirigere l'orchestra del teatro di Barcellona; ed infine si trasferì al S. Gaudenzio di Novara, ove morì nell'anno 1832.


(Roma, 4 ottobre 1773 – Novara, 8 novembre 1832) è il sesto dei sette figli di Francesco e Maddalena Aureli. Il padre, nato nel 1730 alla Frazione Mercandetti–Vico del Generale di Masserano (BI), si trasferisce a Roma nel 1760 circa e abbandona il primo cognome optando per il secondo. Intrapresa dapprima un’attività in proprio, dopo la nascita di Pietro entra al servizio dei Marchesi Del Bufalo come cocchiere, abitando con la famiglia nella casa adiacente al Palazzo dei Marchesi, nella strada nota col nome della Chiavica del Bufalo, dall’omonima fontana ancora oggi esistente. Al primo piano della stessa casa abita l’alto dignitario ecclesiastico napoletano Mons. Bartolomeo Lopez. Questi e il marchese Paolo Del Bufalo sono i mecenati di Pietro. Ancora bambino, viene indirizzato al canto e frequenta la Cappella Musicale Liberiana della Basilica di Santa Maria Maggiore dove ha per insegnanti forse Raimondo Lorenzini (o un suo collaboratore) e Giovanni Battista Persichini. Intraprende la carriera di cantante, esercitata sia nella Cappella Liberiana e in altre chiese romane sia in teatro, carriera che si sviluppa tra il 1785 e il 1799 e i cui dettagli Generali non racconterà mai ad alcuno. In questi anni intraprende gli studi di contrappunto con Giovanni Masi, integrandoli in seguito con Pietro Persichini e con un soggiorno di quattro mesi in un conservatorio di Napoli. A partire dal 1798 si avvicina ai lavori di Giuseppe e Luigi Mosca, rappresentati nei teatri romani, e nel 1799 viene indicato per la prima volta come «maestro di cappella».

Esordisce come operista al Teatro della Pace nel gennaio del 1800 con gli intermezzi Gli Amanti ridicoli seguiti, il 30 maggio al Teatro Aliberti, dalla cantata Il Trionfo della verità. Nello stesso anno si sposa con Margherita Mayo, un matrimonio infelice destinato a naufragare di lì a poco tempo. Nel 1801 effettua un viaggio in Italia meridionale (probabilmente a Napoli) e nel 1802, ritornato a Roma, dove rappresenta Le Nozze del Duca Nottolone (febbraio) e La Villanella al Cimento (novembre) entrambe al Teatro Valle. Una settimana dopo la “prima” di quest’ultima farsa perde l’unica figlia nata dal matrimonio, Virginia.

I legami con le sue origini biellesi

Pietro Mercandetti Generali andava fiero delle sue origini masseranesi tant'è che a Novara, pur dichiarandosi nativo di Roma, citava Masserano (dove aveva alcuni amici, tra cui Luca Fieschi) come patria d'origine considerandosi masseranese a tutti gli effetti. Già il senatore Rosazza nel 1882 colse bene la situazione facendo porre una lapide nell'androne del Palazzo Comunale (ancor oggi visibile) sulla quale fece scrivere "Pietro Generali del casato dei Mercadetti di Masserano".


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L’anno successivo è a Bologna con Le Gelosie di Giorgio (la farsa che decreta la definitiva affermazione di Filippo Galli come «mezzo carattere») e soggiorna in questa città e in Romagna per un anno. Il successo viene nel 1804 con La Calzolaja e Pamela nubile a Venezia. Quest’ultima farsa gli dà immediatamente fama europea con le rappresentazioni di Praga, Vienna, Barcellona e Amsterdam. Nel 1805 esordisce alla Scala di Milano con Don Chisciotte della Mancia, ma opera essenzialmente a Venezia fino agli entusiastici riconoscimenti che vengono tributati a Le Lagrime di una vedova (1808) e ad Adelina (1810). Nella città dei Dogi mette in scena nuovi lavori per i teatri San Benedetto, San Moisè e La Fenice e compone svariate arie e «pezzi d’insieme» inseriti in opere di altri compositori. Nello stesso periodo rappresenta nuove opere a Napoli, Firenze, Vicenza e Roma dedicandosi soprattutto alla farsa ma avvicinandosi gradatamente all’opera buffa. Con quest’ultimo genere ottiene un clamoroso successo alla Scala di Milano nel 1811 (Chi non risica non rosica, 39 recite consecutive) che non riesce a replicare a Roma con La Vedova delirante, a causa della ricercatezza e delle difficoltà esecutive della partitura. Tornato a Venezia tenta un’ultima volta la via della farsa con Isabella e quindi abbandona il genere. Nel 1813 a Napoli affronta per la prima volta il genere serio con Gaulo ed Oitona. L’anno successivo è a Torino, dove intende stabilirsi, e compone per i tre maggiori teatri del capoluogo piemontese: Regio, Carignano e d’Angennes, rappresentando in quest’ultimo l’opera buffa di grande successo La Contessa di Colle Erboso. Negli ultimi mesi del 1814 accetta l’incarico di maestro di cappella della Cattedrale di Alessandria che lascia verso la metà dell’anno successivo.

Si ripresenta a La Fenice di Venezia nel gennaio 1816 con un capolavoro, l’opera seria I Baccanti di Roma, riscritta completamente per Trieste nel giugno dello stesso anno con il nuovo titolo I Baccanali di Roma. È uno dei successi più rimarchevoli di Generali, rappresentato in tutti i teatri italiani e apprezzato nelle città austriache e tedesche (Bonn, Colonia, Darmstadt, Dresda, Francoforte, Innsbruck, Kassel, Monaco, Vienna) ma anche in altri importanti centri musicali europei ed extra-europei (Barcellona, Budapest, Calcutta, Città del Messico, Corfù, L’Avana, Londra, Oporto, Praga, Strasburgo, Zara). Nel 1817, dopo i non lusinghieri esiti di Clato a Bologna e di Rodrigo di Valenza a Milano, accoglie l’invito di Ramón Carnicer e accetta l’incarico di direttore del Teatro de la Santa Cruz di Barcellona dove dirige la stagione 1817-1818 e imposta la successiva. Nel dicembre del 1818 è nuovamente a Torino e nel successivo aprile a Rovigo. Da qui parte per Parigi con l’intenzione di fermarsi per qualche tempo ma nel dicembre del 1819 è già a Roma con Il Gabbamondo e dal 1820 a Napoli dove in tre anni rappresenta tredici opere di cui sei espressamente scritte per i teatri Fondo, Nuovo e San Carlo.

Nel 1823 si trasferisce in Sicilia e accetta l’incarico di direttore del Teatro Carolino di Palermo che conserva fino a fine marzo 1825, quando viene sostituito, forse a causa di una malattia, da Donizetti. Generali rimane in Sicilia e riassume l’incarico nel marzo dell’anno successivo. Nel frattempo fonda una loggia massonica e per questo, a fine settembre 1826, viene esiliato da tutti i territori del Regno delle Due Sicilie.

Si trasferisce a Firenze dove, all’inizio del 1827 porta in scena un altro dei suoi capolavori, il dramma Jefte, rivisitato e riproposto a Trieste a metà dello stesso anno con grandissimo successo. Nell’agosto del 1827 è a Novara come maestro di cappella della Cattedrale, incarico che conserva fino alla morte. Dalla città piemontese si allontana saltuariamente, in particolare per rappresentare Francesca di Rimini (1828) e Beniowski (1831) a La fenice di Venezia, Il Romito di Provenza (1831) alla Scala di Milano. Muore a Novara nel 1832 di malattia polmonare. In trent’anni ha dato al teatro 56 lavori (compresi 2 postumi), di cui 13 farse, 22 opere buffe, 21 opere serie. Inoltre ha disseminato le città, in cui ha soggiornato, di un alto numero di partiture sacre.

Il passato di cantante, ancorché mai ammesso, e quello di compositore gli hanno consentito di avere tra i suoi allievi sia operisti (Luigi Ricci, Antonio Sapienza, Luigi De Macchi, Giovanni Lorero) sia cantanti (Pompilio De Capitani y Goetsens, Angelo Guglielmi, Cavalier di Ferrer e forse Filippo Galli) e di portare sul palco, fin dall’anno 1800, cori di voci bianche.

Pietro Generali «diede una scossa allo stile» collocandosi «du juste milieu tra i barbassori Paesiello Cimarosa, egli azzimati Rossini, Bellini e simili». Fu «il primo che prendesse le mosse in ciò che chiamasi ristauramento della musica» con le orchestrazioni brillanti, le melodie scorrevoli e gradevoli indirizzate verso nuove forme, il perfezionamento del crescendo, le armonie e le modulazioni inconsuete e ardite, immaginando tra tutti questi elementi un’infinità di combinazioni e di idee nuove. La sua popolarità fu seconda solo a quella di Rossini, dal quale si distinse per lo stile diverso, stile cui fu fedele ed eleborò fino al suo ultimo lavoro.


Pagina realizzata il 30 novembre 2009 - testo di Alberto Galazzo

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