IL BIELLESE NEI LIBRI

Biella giacobina 1797-1801

di Diego Siragusa

Edizioni Leone & Griffa

Biella giacobina 1797-1801
Capitolo

La sommossa di Biella

Come alla vigilia del 14 luglio 1789, la concomitanza della crisi sociale e politica determinò in Francia la rivoluzione, analogamente in Piemonte l’entrata in campo dei diseredati coincise con una grave crisi alimentare che accentuò il distacco abissale tra la grande maggioranza del popolo ed il potere regio con la sua minoranza di nobili e di agiati proprietari.

Anche a Biella per il rincaro e la penuria delle granaglie cominciò a manifestarsi un torte malcontento gravido di tensione.

Il 17 luglio 1797 la municipalità incaricò il cavaliere di Casanova di Vercelli, “soggetto zelante del bene pubblico”, affinché facesse incetta di segala e meliga per rifornire il mercato di Biella. “Perché questo provvedimento sortisca il fine salutare - si legge nei verbali - occorre vigilare che le granaglie si vendano ai poveri e che nessuno tenti di fare alcun monopolio”. I consiglieri si dichiararono dispiaciuti di non potersi addossare la spesa, ma misero a disposizione il “Palazzo di città” per la vendita delle granaglie.

Per evitare disparità si diede mandato ai parroci di fornire un certificato per le persone più bisognose. Ma poiché le granaglie provenivano dai luoghi dove esse erano più abbondanti, il Vercellese e la Lomellina, occorreva aumentare il loro prezzo per il costo del trasporto “a maggior commodo del pubblico e senza suo discapito”. Si dovette considerare “per detto provisionale aumento il caro ed eccessivo prezzo delle bestie mullatine e eavalline. del fieno e segnatamente d’ogni sorta di viveri, e così alla grave spesa a cui devono soggiacere li mercatanti per il trasporto suddetto, ed al compenso, che egli deve avere per la giornata che impiegano per il medesimo, oltre il consumo naturale da una misura all’altra, ed altre avvarie, ed altresì per il pericolo a cui espongono la vita soggetta alli sinistri incontri, alli infortuni, disastri, ed intemperie de’ tempi, e per la notabile distanza che vi è da questa città alli su divisati luoghi. cioè di miglia 22 dalla città di Vercelli, e di 30 e più dalla Lumellina”.

Traspare in modo netto da questo documento comunale che anziché calmierare il prezzo delle granaglie, si fece di tutto, invece, per aumentarlo ricorrendo ad argomenti in sé veri, ma speciosi e lontani dalla gravità della situazione. Infatti venne stabilito un aumento medio di lire 3 e 10 soldi per ciascun sacco.

Le pretese dei mercanti e dei borghesi e l’ignavia delle autorità cittadine, incapaci di valutare il rischio della collera popolare per l’ulteriore rincaro, contribuirono ad aggravare il malcontento.

Il 27 luglio il convento di S. Caterina e quello dei Padri agostiniani scalzi di S. Carlo furono assaltati e saccheggiati da una folla formata da biellesi e gente che proveniva da Camburzano, Pollone e Valle Mosso. Due sconosciuti popolani capeggiarono la rivolta: Giovanni Coda e Anna Maria Cravaria la quale fu accusata di avere percosso un frate e rubato biancheria anziché la meliga. Anche i magazzini dei mercanti furono fatti segno di minacce poiché ad essi i contadini diedero la colpa di speculare e di fare incetta. Ne fecero le spese le case di un mercante di nome Bertolazzo e di un certo Cerruti che furono saccheggiate.

I rivoltosi durante la notte si trincerarono nei conventi occupati ed i borghesi, invece, meditavano di espugnare i conventi e ristabilire l’ordine. A quel punto, verso mezzanotte, intervenne un emissario di un nobile giacobino, Pietro Avogadro di Valdengo conte di Formigliana, che si offrì come mediatore. Essendo egli già a capo di una folla di circa 4000 contadini che intendevano marciare su Vercelli, propose alle autorità di adoperarsi per liberare Biella dai saccheggiatori in cambio di fucili, munizioni e viveri per i suoi uomini.

La proposta venne accolta, ma appena i contadini ottennero ciò che volevano si sbandarono e lasciarono solo il conte Avogadro nel suo proposito di marciare su Vercelli. Assieme a quest’ultimo fu coinvolto nella sommossa anche Giuseppe Avogadro, vassallo di Quaregna, che fu arrestato a Mondovì e condotto nella Cittadella di Torino per essere condannato, qualche mese dopo, a tre anni di carcere.

Il 29 luglio i borghesi e i soldati della guarnigione, dopo una breve scaramuccia riuscirono a sopraffare i rivoltosi e a liberare i conventi, il Coda e la Cravaria furono arrestati: il primo fu fucilato con altri sei e la seconda costretta a “passare un giro intero fra le verghe fra mezzo a cento uomini di questa forza armata”.

Il conte Pietro Avogadro in un primo tempo fu condannato a morte, ma il principe di Carignano (futuro padre di Carlo Alberto) lo graziò per festeggiare il suo fidanzamento con Maria Cristina Albertina di Sassonia Curlandia.

Il 31 luglio il consiglio comunale, sotto la presidenza del conte cavaliere Giuseppe Maria Vialardi, a causa dell’assenza per servizio del sindaco Villani, discusse il modo per fronteggiare “li tendenti alla libertà con pessimi fini già manifestati di saccheggio, [affinché] non possino più oltre tentare altri del loro malanimo contro il nostro Amorosissimo Sovrano...”.

Si riconobbe che la repressione non aveva stabilito alcun ordine e si doveva ancora vigilare per impedire “gli attentati che continuamente or qua or là si commettono dalli atrapassamenti del mandamento d’Andorno e di molti altri abitanti mal inclinati delle altre comunità vicine…”

Questa netta e protocollare ammissione non faceva alcun velo sulle reali dimensioni della rivolta e del sostegno che i contadini delle zone vicine manifestavano. Le autorità erano così preoccupate di esercitare un pieno controllo sull’intera città, che decisero di supplicare la Maestà Sovrana per ottenere “in soccorso un nerbo di truppa regolare, qual possa solevare li cittadini dalla continua non interrotta vigilanza di stare alla continua difesa delle moltissime persone atrupate per insor­gimento, con eziandio di cercare di sorprendere li abitanti fedeli e ridurli alla necessità previa di mali trattamenti per non oporsi alle loro pessime idee, surrezioni ed indipendenze”.

Il giorno dopo, secondo il 3° comma dell’editto del 26 luglio, furono scelti due consiglieri: il conte Giuseppe Maria Vialardi e l’avvocato Giovanni Martino Rondi che, assieme alla giunta provinciale, pronunciassero le sentenze contro “li arrestati per gli atrupamenti diretti a saccheggiare qualche cosa, far violenza alle persone, o resistenza alla forza pubblica nelle vie più sommarie e pronte, così che bastar debba la notorietà del delitto con un semplice ben circostanziato verbale.”

Poiché il comune aveva bisogno di danaro per pagare il rifornimento di meliga bianca, acquistata proprio il giorno della rivolta, e pagare inoltre la civica milizia, chiese un prestito di lire 5000 “ da restituirsi fra mesi due”.

Il conte Crispino Avogadro di Valdengo, cugino del come Pietro, ed il cavaliere Fantone di Vigliano furono incaricati di cercare le persone disposte ad un prestito. Si considerò anche di confiscare i beni degli arrestati per sanare il deficit del bilancio comunale a causa delle spese per fronteggiare la ribellione.

Nonostante l’uso della forza avesse riportato la calma non mancavano valutazioni diverse tra le autorità e le recriminazioni verso chi poteva evitare i disordini. Iniziò una polemica tra il prefetto e giudice di Biella Angelo Laugeri e l’amministra­zione  comunale. Secondo il prefetto l‘amministrazione era responsabile perché discorde nell’esegui­re gli ordini di chi comanda. L’amministrazione rispose che l’intendente, prima della sommossa, aveva progettato di perquisire casa per casa per evitare che alcuni “ritenessero” della meliga per obbligarli a venderla.

L’autodifesa dell’amministrazione mostrava il clima di confusione e di paura delle autorità, attente a non concedere attenuanti o giustificazioni ai rivoltosi. Proprio in quei giorni scoppiò una protesta nel mandamento di Andorno, repressa in modo spietato, in cui ebbero un ruolo importante alcuni esponenti giacobini come l’abate Boffa della Valle, andornese, che fu suppliziato e fucilato il 7 agosto a soli 36 anni. Era comprensibile una certa trepidazione per paura che il controllo della situazione potesse sfuggire di mano.

Si procedette ad armare “le persone facoltose e dabbene” per difendere” la pubblica quiete e le proprietà contro gli attentati dei facinorosi”. A 203 cittadini, che formavano la civica milizia volontaria, furono distribuiti fucili e munizioni. Ma il comandante, cavaliere d’Agliè, annunciò che il re, per aiutarlo a ristabilire l’ordine, aveva deciso di inviare due squadroni del Reggimento di Savoia Cavalleria per sostituire i cittadini armati tra i quali “… vi sono molti individui sui quali (...) il pubblico non può avervi la necessaria confidenza”.

Come promesso l’11 agosto giunse a Biella la cavalleria e venne alloggiata nei due conventi di S.Antonio e S. Sebastiano. Ma il 14 agosto presso il mercato si radunò “un triplicato numero di popolo” per contenere il quale non bastò la forza armata. La pacifica protesta fu causata dal prezzo eccessivo “a cui si sono fatti ascendere li generi di prima necessità”.

Per evitare l’assemblea di popolo si propose di sospendere la fiera di S. Bartolomeo ed il mercato in cui si vendeva la meliga.

C’era ancora un ulteriore strascico nel dissidio che contrappose la giunta municipale al prefetto Laugeri che fu accusato di aver provocato i disordini con un manifesto in cui si annunciava la vendita di una quantità di meliga al prezzo di lire 6 per ogni emina per i più poveri, mentre il prezzo corrente era di lire 8.
Un gran numero di gente accorse senza la possibilità di accertare chi fosse veramente indigente. Inoltre i venditori non erano disposti a vendere a quel prezzo.

Mentre si affievoliva la polemica sulle responsabilità, anche la situazione generale dell’ordine pubblico divenne tranquilla e la giunta poté comunicare al vicario capitolare, Bartolomeo Boldi, che le monache potevano ritornare al convento non essendoci più alcun pericolo di “ popoli tumultuanti per il frivolo pretesto di defficienza di meliga”.

La civica amministrazione di Biella, preoccupata che la città apparisse come una città sediziosa, inviò il conte Vialardi a Torino, “ed alli piedi di Sua Maestà, ove sia possibile, per procurare di scancellare con prove le sinistre impressioni fatte di questa città...”.

Dopo questa amara lezione si provvide a rifornire Biella di granaglie. Furono acquistati 935 sacchi di meliga che costarono lire 39.523 con le casse comunali quasi vuote.

Intanto il conte Crispino Avogadro aveva raccolto un prestito dì lire 5000 per pagare l’acquisto della meliga.  Chi si rese conto che i moti non erano stati un “frivolo pretesto”, ma una drammatica necessità, fu il comandante cavaliere d’Agliè: “ La posizione - egli disse - di questa città e terre della provincia al di qua dell’Elvo, non è favorevole d’un raccolto di granaglie per la numerosa popolazione, cosicché anche nei anni di maggiore fertilità se ne deve fare incetta sui pubblici mercati. La popolazione è numerosa, ascende a persone 92.000. Questa popolazione mancando di nutrimento s’abbandonerà attruppata a cercarselo ovunque, e la città sarà la prima a provarne le funeste conseguenze”. Si convenne dunque di ricorrere ad un prestito straordinario tra i più facoltosi per rifornire i mercati di meliga al fine di evitare “le conseguenze di persone esacerbate di vedersi mancar la granaglia”.

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Lo scopo di queste pagine è di mostrare (attraverso i libri) le caratteristiche storiche, turistiche, sociali ed economiche del Biellese. Qualche fotografia e un po' di testo, senza pretesa di fare un lavoro perfetto, creando un archivio che cresce e migliora nel tempo. IL BIELLESE NEI LIBRI è a disposizione di tutti gli editori/autori che vogliano fare conoscere le opere riguardanti il territorio. La pubblicazione avviene in forma gratuita.



settembre 2001