In un mondo che ha perso il ricordo di Dio, la sacra Fonte della vita e della parola, anche il linguaggio, o forse soprattutto esso, ha subìto una profonda degenerazione, modificato da idee e concezioni mentali improntate sull’effimero. Il significato originario delle parole è andato così viepiù smarrendosi e pochi sono quelli che, oggi, sanno pensare e parlare con consapevolezza.
Prendiamo ad esempio la parola “umiltà”; nell’accezione corrente essa viene associata ad immagini di debolezza, di rinuncia, di bassezza, di mancanza di dignità e, in particolar modo, non rientra nella plètora di ideali che, secondo il modello proposto dai mass-media, dovrebbe caratterizzare un vero uomo: furberia, ambizione, arrivismo, spietatezza, edonismo, etc.; ideali questi che, per essere realizzati, presuppongono il tradimento radicale delle esigenze della propria Anima.
In tale clima culturale, la parola “umiltà” è diventata pressoché tabù; come si può, ci si domanda, progredire nel mondo reale (profano e illusorio per chi sa) con tale scomoda virtù in mezzo ai piedi? L’umiltà, infatti, concede tutto, tranne che di vendere l’Anima e perciò essa dev’essere svilita e bandita come reietta e pericolosa, nemica della realizzazione di una sana individualità, estranea alla folle visione in cui l’uomo, in quanto essere mentale, dimenticatosi dei propri limiti, si autoproclama onnipotente, detentore di una tecnologia in eterno sviluppo.
Etimologicamente umiltà (humilitas) rimanda al possedere il senso della terra (humus). Tale indicazione è, secondo me, assai interessante e corregge l’accezione corrente con cui viene usato il termine in questione.
A ben riflettere, dal punto di vista umano, non v’è nulla di più forte e inamovibile della terra; essa è roccia, montagna, oceano, fuoco, aria ed esisteva prima ed esisterà dopo il transito delle speci umane, animali, vegetali. Se ne deduce che possedere “il senso della terra” significa, ripostamente, aver sviluppato la capacità di discriminare tra ciò che è durevole e ciò che è perituro, o, in altre parole, saper distinguere l’Assoluto dal realativo.
Una buona esemplificazione di autentica umiltà ci viene data dal canto di morte che il guerriero Cheyenne, Antilope Bianca, cantò prima di gettarsi nella battaglia che per lui sarebbe stata fatale:
“Niente vive a lungo
Solo la terra e le montagne.”
In sintesi si può dire che la chiave della comprensione dell’umiltà sta nella Conoscenza; non la conoscenza profana, empirica, scentista, oggi tanto apprezzata dagli uomini incantati dai miraggi illusori di un benessere soltanto materiale, bensì la vera Gnosi, ovvero la Ierosofia, saggezza delle cose sacre, riguardante i temi fondamentali dell’uomo e di tutta la vita.
La Conoscenza sacra non sta però scritta nei libri – che, nel migliore dei casi, la indicano soltanto e, nel peggiore, inducono nell’uomo l’obnubilamento dell’erudizione fine a se stessa -, ma nel libro vivente del Cuore, accessibile a tutti coloro i quali siano sufficientemente disponibili a ricordare (ri : riaccedere, cordi : al cuore) a quale Fonte l’essere umano debba rivolgere tutta la propria attenzione e riconoscenza.
E’ bene sottolineare che soltanto perfezionandoci nell’apprendimento dell’umiltà, possiamo fondare la nostra casa sulla roccia della Fede nel Vero e non sulle sabbie mobili dei falsi valori. Dall’assimilazione di tale virtù derivano inoltre: coraggio, forza e un grande senso di dignità.
Chi attenda, con purezza d’intenti, alla ricerca spirituale, accogliendo l’esortazione dantesca: “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza.”, non si offenderà tanto facilmente e nemmeno trarrà un eccessivo compiacimento dalle lodi; quale calunnia o quale adulazione potranno, infatti, sminuire o aumentare quel seme di Luce immortale che Dio gli ha posto dentro e che costituisce il Centro del suo essere e la sua unica Realtà?
Senza l’umile accettazione del dono datoci di saper discriminare tra il bene e il male, il giusto e l’errato, consapevoli di poter sempre scegliere, decisi a voler ogni volta segliere il bene, in armonia con le Leggi della Luce, non può esservi comunicazione, comprensione, né, tantomeno, può sussistere una vera Comunità in cui regnino bellezza d’accordo e pace.
L’umiltà (il senso dell’Assoluto) è la preziosa Lampada alla cui Luce i vari problemi che ci assillano appaiono nelle loro giuste proporzioni: semplici onde, increspature fuggevoli sul mare della Verità.
A conclusione di queste succinte e modeste riflessioni, desidero citare Cordovero, mistico del XVI secolo, appartenente alla tradizione chassidica; le sue belle ed utili parole non sono state minimamente scalfite dal tempo e ogni sincero aspirante al Divino può farle sue, traducendole in pratica nella propria quotidianità: “Non lasciarsi prendere dalla collera. Non dire male di alcuna creatura, neppure di un animale. Non maledire gli esseri, ma benedirli, anche nella collera. Non fare giuramento, neppure sulla verità. Non mentire mai. Non fare parte dei quattro individui ripudiati dalla Shekinàh (la presenza di Dio nell’uomo): il bugiardo, l’ipocrita, l’arrogante e il maldicente. Comportarsi generosamente verso i propri simili, anche se essi trasgrediscono le leggi. Incontrarsi con uno dei propri compagni ogni giorno per un’ora o due per discutere di pensieri mistici”.